a cura del del Soroptimist International d'Italia, Club di Cagliari
edizione speciale, pubblicata in occasione della mostra.
Di barche volanti città di pietra e un sogno d'estate.
Barca volante: questa la traduzione letterale in italiano di flying boat. Rispetto al nostro più tecnico: idrovolante, il termine inglese disvela un colore quasi popolare, fiabesco, lontano dal rombo futurista delle eliche, dal vapore di benzina, dallo scintillio metallico dei motori riflessi sull’acqua. In flying boat risuona insomma, liquido di quella celtica propensione alla magia, un non so che di rustica barca fatata, capace a volte di staccarsi dal mare del reale per veleggiare nelle contrade del sogno o del mistero grande dell’aldilà.
Astruserie lessicali di anglofilo, queste mie, che forse hanno attraversato per un istante anche la mente di Anna Marongiu Pernis, gelosa di una sua appassionata e manifesta anglofilia, mentre aspettava paziente il decollo nel ventre dell’idroplano flottante nello stagno di Elmas. 0 in quello scalo ostiense, dove mi piace immaginarla, in un lontano mattino di mezza estate, i grandi occhi profondi intenti sul Tirreno, rapita all’improvviso, dall'argentea barca volante che l’ha portata verso il suo ultimo sogno, infinito.
In principio fu il bosco
Quel mantello verde che si stende ancora oggi foltissimo sul massiccio dei Sette Fratelli, si ingrossa a volte nel rigoglio di querce e castagni e sugheri rugosi e lecci, stretti, insieme al mirto e al corbezzolo, nell’ombra paterna del bosco, che si dirada, più in basso, verso la valle del Riu Longu, per sfoggiare ancora le nobili chiome dei pini, l’argento dell’olivo e la festa dorata degli agrumi: è San Gregorio. Antico insediamento dei primi villeggianti di città, attratti dai prodigi di un microclima che scatena, segreta nei chiusi delle belle ville, una flora fantastica. Foreste di bambù e glicini giganti, palmizi e liane persino, si mescolano esotici agli applausi nostrani dei fichi d’India e al rosa carico dell’oleandro.
In quel giardino incantato è cresciuta Anna, nel fresco delle lunghe pause estive, mentre la canicola cagliaritana latrava impietosa o al tepore di tanti tiepidi soli invernali, quando non era infine il germinare possente di primavera a riempirle gli occhi di tutti i colori del verde. E la trama arborea, lineare e fluente, di quel regno umbratile si è impressa per sempre – in controluce – nella retina dell’artista: lo spirito del luogo le ha impregnato intenso la memoria e l’anima di un afrore silvano indelebile. Essenza fitomorfa incorruttibile, dell’elegante allegrezza bucolica, intarsiata nelle opere giovanili e ancora – più avanti – finalmente innervata nel gusto grafico per il segno netto, stagliato, dell'incisione, che non dimenticherà mai il bosco.
In quell'angolo di paradiso Anna respira l’idea di una natura intatta e insieme educata dalla mano dell'uomo, in una sintesi ideale di perfetta convivenza, armonia arcadica di quell’età antica che evocava, allora, la nostalgia di un generale “ritorno all’ordine”. Recupero moderno della tradizione, invocato contro il disagio del primo dopoguerra, a cancellare la violenza estrema della storia e dell’arte di quel secolo ancora giovane eppure già tremendo. Prima ancora dell'incontro romano con la regola nuova del Novecento, è insomma il genius loci di San Gregorio a impartire gentile e paterno la sua lezione formale alla giovane apprendista. Suggestioni e modelli assunti in natura che Anna vorrà sempre ritrovare anche oltre il Tirreno, nei parchi della capitale o nel verde di Frascati, in un contatto irrinunciabile con la campagna, con il bosco fatato della sua infanzia.
E uguale simpatia leggiamo nelle sue opere per le creature innocenti di quella selva, colte con un calore di solidarietà, di intima partecipazione a quell’innocenza inerme, tale da evocare le tenerezze porcellanate di un Emilio Malerba o ancora la bonaria perfezione della fauna amata e dipinta da Beatrix Potter. Testimonianza, forse anche quest'ultima, di un’anglofilia impetuosa della nostra, studentessa a Roma presso l’Accademia Inglese, che si dichiara nel nutrito ciclo di illustrazioni per Dickens e ancora nella bellissima suite shakespeariana per il “Sogno di una notte di mezza estate”. Undici tavole a colori dove si esibisce vistosa tutta la ricchezza dei modelli culturali, tutta l’eleganza visionaria di questa specialissima ventenne.
Anna incede nel mondo fantastico dell’inglese con la sicurezza di un segno raffinato, figlio della sintesi attenta eppure sontuosa di certo Novecento, capace di concedersi generoso e coltissimo al piacere dorato della decorazione. Nelle figure umane, flessuose di un classicismo controllato – vicino alla misura aurea di un Giò Ponti – brilla gioioso il rigore geometrico dei cromatismi Déco. Mentre lo spazio metafisico della favola si modula quasi sempre nel ricamo lussuoso di una flora d’arabeschi: e torna il bosco, ideale, nella perfezione cesellata di una natura mondata dal végétale irregulier – bandito dalla Sarfatti – dove è solo la dea della sintesi volumetrica a scandire un’algida sinfonia di composti valori plastici. Tutto questo dentro l’orgogliosa modestia dell’illustrazione: attitudine alle arti applicate che Anna Marongiu Pernis saprà esibire, anche nell’ambito dell’arredamento, a un livello tale da meritarsi persino l’attenzione di “Domus”. Disposizione alla manualità del fare artistico, al pregio artigiano della moltiplicazione del fatto estetico, che la avvicina ben presto alle fatiche precise dell’incisione calcografica.
Il rame e il calcare
Anni trenta: è già l’ultimo, luminoso decennio della breve esistenza di Anna, e si apre nel segno dell’incisione e di un grande e affezionato maestro, Carlo Alberto Petrucci. Inizia allora quella spola che le sarà fatale, tra Cagliari e Roma, e lo studio dell’acquaforte, una tecnica che profuma ancora di magia alchemica, dell’odore forte degli acidi, degli inchiostri, della carta umida e del rame.
L’essenzialità grafica del nuovo strumento invoca subito la forma familiare del bosco, le sue luci, l'ombra traforata. Contrasti decisi di tronchi, stagliati sulla carezza lieve dei chiaroscuri serotini, lucori madreperlacei di aurore incipienti, impigliate nell’intreccio dei rami, vibrazioni segniche di chiome fronzute, scomposte dal vento e da un postimpressionismo utile ad affinare la difficile arte della sintesi, dentro lo sperimento calcografico condotto con foga di neofita entusiasta.
Avida di spunti, di modelli, Anna si muove, sicura, dalla lezione degli antichi maestri a suggestioni più contemporanee: temi religiosi, favole mitologiche, scenette aneddotiche, mascherate e "circenses” si imprimono sulla carta con una densità e varietà di riferimenti culturali sempre governati però dalla cifra personalissima dell’autrice.
E mai riesce a prevalere la traccia della fonte, sia essa rinascimentale o barocca, italiana o neerlandese, sul criterio ordinatore della Marongiu: quella sua forza di sintesi equilibrata e composta che modella anatomie, ricava spazio e lo illumina sapiente, sempre attenta a una misura speciale, inconfondibile per solidità, chiarezza e una luce calda d’umanità sincera. Tratto saliente, quest'ultimo, dei modi narrativi delle sue incisioni, segnale costante eppure lieve nel suo prodursi sulle tavole, si dispiega in una gamma espressiva variata che sa raggiungere l’intensità del dramma ma anche dipingere i colori semplici della quotidianità sino a esibire il riso dell'ironia o una smorfia grottesca.
Specie, quest'ultima, nell’innocua sfrenatezza del carnevale cagliaritano, dove la mascherata si concede a un certo stralunato espressionismo “mediterraneo", chiassoso e sanguigno, lontano però dall'umorismo tragico dei tedeschi – specie di un Otto Dix – che pure la Marongiu dimostra di conoscere. È, invece l'assurdo di una follia ancestrale, mitica, a sfigurare quei volti, come solo un’altro incisore sa fare all'epoca in Europa: lo spagnolo José Gutierrez Solana.
Sa attutire però, la nostra, anche quel goyesco berciare di mostri, costretto nella regola umanissima, solidale, amorevole quasi, delle sue rappresentazioni. Galleria di storie sacre e profane, fantastiche e reali, sorridenti a volte, dove ci si imbatte alla fine nella luce abbacinante del calcare della sua amatissima Cagliari.
Affinato alla perfezione lo strumentario tecnico dell’acquaforte, Anna Marongiu si volge con decisa maturità espressiva e passione accurata a ritrarre il carattere unico – plastico e solare – di quella bella città prospera, vivace di gente e capace di raccontare una sua storia di pietre e volumi inconfondibili. È la stessa “Strange, stony Cagliari” di Lawrence, e “una città assai diversa da qualsiasi altra” la vede Vittorini in quegli stessi anni trenta, "fredda e gialla; fredda di pietra e d’un giallore calcareo africano”.
Spirito del luogo fascinoso e aggressivo – speciale – fatto di vento e di vuoto, che tocca nell’intimo il viaggiatore di passaggio: Anna Marongiu lo fa suo in un dialogo lungo, insistente e goduto, scandito finalmente nella serie avvincente di vedute ancora ineguagliate.
“Gioco sapiente – corretto e magnifico – delle forme sotto la luce”: la limpida definizione dell'architettura, coniata 8a Le Corbusier, vale rotonda per descrivere questo mirabile jeu savant di
Anna Marongiu Pernis, intenta a incidere, sintetica, les formes della sua città sous la lumière. Razionalismo superbo – militare e romanico – di torri pisane, muscoli tesi dei possenti bastioni ispanici, contrafforti medievali, membrature e muraglie bianche, altezza di acropoli rocciose, chiese massicce di Bisanzio e chiostri di Catalogna, archi rampanti e campanili come minareti: forme essenziali, volumi puri di architetture dure, si succedono sotto il virtuosismo di una luce variata, intrappolata senza pietà dai tempi precisi delle morsure dell'acido sulla matrice.
Prospettive cristalline, nitore di spazi perfetti, purezza ortogonale di fughe geometriche della strana città di pietra e di bianchi calcinati: eppure mai il gelo di una sintesi cerebrale, fine a se stessa, nelle incisioni cagliaritane della Marongiu. Nessuna tentazione, seppure plausibile, di estetismi postcubisti o eccessivi edonismi metafisici.
Lo specchio immoto – polito dal vento e caldo di sole – delle mura di calcare, riflette il vibrato incessante di una flora e di un'umanità che si arrampicano insieme sulle membra pietrificate della città. Cornice di fronde e di gente che si assiepano ai margini delle stampe a far muovere, respirare di rassicurante quotidianità un paesaggio urbano pulsante di vita. Dettagli, arborei e popolareschi, che Anna Marongiu sa intagliare con la tenerezza esperta di un lirismo schietto, e svelta spavalderia della sua sintesi sicura. Da artista che si muove ormai nel pieno di una maturità confortata da una solidarietà di cagliaritana verace, innamorata com'è di quella strana città "metà roccia e metà case di roccia”. Che in una splendida stampa ci appare proprio così: compatta e trasparente come un’aggrovigliata montagna incantata di volumi di cristallo, incastrati l’uno nell’altro a smottare lenti verso il porto affollato, verso il mare, dove le nereidi della sua araldica nuotano felici, le chiome sciolte, a sbandierare lo stemma antico del primo Castellum di Sardegna.
Sedici tavole per un fregio prezioso, dedicato a una Cagliari pacifica e felice, inconsapevole del destino tremendo che la attende alla prossima svolta, fatale, negli anni quaranta: lo stesso che aspetta inesorabile anche l’autrice, sorridente inconsapevole, di quel ciclo inciso come fosse l’epilogo luminoso di una giovane vita spezzata.
Il terrore e la fine
La guerra arriva all’improvviso, lancinante e violenta come il maestrale di febbraio. Non è più tempo di dosare con calma gli acidi sulla lastra verniciata, di contemplare la natura e il sole sul calcare liso: tutto il mondo è in fiamme anche la bianca città nel golfo ha subito le prime inquietanti incursioni dal cielo. Ora è l’urgenza di impugnare una punta d’acciaio e spremere tutta l’angoscia che si addensa sottile nell’anima, fuori, diretta sulla lastra di rame, a registrare il terrore. Dominarlo, esorcizzarlo, nelle curve attente del bulino, che misura lo sconforto profondo davanti alla violenza che travolge l’ordine e riduce l’uomo alla ferinità di bestia abominevole tra le bestie, nel caos di una caccia selvaggia, disumana.
E il bosco riarso, spogliato ormai dall’incanto della natura benigna, diventa nuda, ossuta selva infernale. Tutti i sogni di Anna sembrano avvitarsi nel vortice livido dell’incubo. Sarà un’argentea barca volante a strapparla dagli orrori della guerra, allo spettacolo crudele della sua Cagliari sventurata, a traghettarla – magica e inesorabile – da quell’ultima, triste estate terrena al sogno di un’estate senza fine.